L’ESTATE DI BOB MARLEY – 1980

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Il giornalista e scrittore Paolo Pasi in questo bel lavoro mescola storia e fiction in una narrazione accattivante in cui a fare da sottofondo sono le storiche canzoni di Bob Marley una vera e propria icona sia sul versante musicale che sociale e politico.

Cosa succederà quella mattina de 27 giugno 1980 data in cui si tenne lo straordinario concerto dell’artista giamaicano in quel di Milano?

Comincio questa “chiacchierata” chiedendoti: cosa significa per te Bob Marley?

E’ un giro di accordi che da ragazzo cercavo di trovare sulla mia chitarra, sono le canzoni che hanno accompagnato la mia formazione musicale, e non solo. Significa la rivincita dei sogni, del loro potere evocativo, della fantasia rispetto al conformismo delle nostre abitudini. Il reggae vive del ritmo in levare, è una ribellione al tempo convenzionale, e le canzoni di Marley ne portano il segno. Le ho scoperte e amate fin dall’adolescenza, ma il richiamo di quel passato raramente diventa nostalgico. Anzi. Quelle stesse canzoni, oggi, conservano intatta la loro vitalità ed energia, e mi arrivano come un incitamento ad andare avanti nonostante tutto. Get up, stand up… Marley ha su di me il fascino di un paradosso spazio-temporale, come un passato che deve ancora accadere.

In questo libro in cui storia e finzione vanno a braccetto, a ritmare il tutto ci pensano le sue canzoni, a quali sei più affezionato e perché?

Il romanzo attraversa un periodo breve ma denso di fatti storici importanti e tragici. Dal 27 giugno, giorno del concerto a San Siro, a metà ottobre del 1980 accadono molte cose destinate a lasciare il segno: la strage di Ustica, la bomba alla stazione di Bologna, la protesta di Solidarnosc in Polonia, l’avvento della tv commerciale in Italia, il duro conflitto alla Fiat che si risolve con la sconfitta del movimento sindacale. Faccio questa premessa perché durante la stesura del romanzo mi è venuto spontaneo associare questi momenti ad altrettante canzoni che fanno da sottofondo alla storia. Sono legato a Natural Mystic, canzone bellissima e ipnotica, perché è quella che ha aperto il concerto di Milano; dico anche Jamming, per la leggerezza del suo ritmo contagioso, rappresentazione in musica della vitalità; poi Redemption Song, una ballata senza tempo che adoro suonare e che è un inno alla libertà, un canto dolente ma non rassegnato che segue le rotte degli esiliati, degli sfruttati, dei migranti. Altro brano cui sono affezionato è War, il cui ritmo incalzante scandisce nel romanzo una scena di guerriglia urbana che lascia il protagonista smarrito e senza approdo. Ci sono molte altre canzoni, ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo.

Perché il concerto di Milano fu determinante e decisamente importante per la sua carriera?

Innanzitutto per la straordinaria partecipazione, quasi 100mila persone racchiuse nel “catino” di San Siro, fuse in una danza collettiva sotto la nebbiolina del fumo e l’occhio benevolo della luna piena. Gli appassionati di Marley sanno che questo concerto segnò un record di pubblico, e diede all’artista giamaicano la consapevolezza della forza trainante della sua musica, della simbiosi e dello scambio tra i musicisti sul palco e le persone sul prato. A San Siro si verificò un fatto incredibile: le strutture dello stadio ondeggiavano sotto il peso dei centomila che ballavano. Fu una specie di sospensione del tempo, una parentesi liberatoria dopo anni di concerti segnati da scontri, proteste per il costo dei biglietti, incursioni sul palco tra l’odore acre dei lacrimogeni. Il concerto fu anche l’apice della carriera di Marley, la sua estate che fece purtroppo da preludio all’autunno della malattia e alla successiva morte.

Dopo questo evento comincerà per lui il declino fisico che lo porterà purtroppo alla morte. Cosa ci ha lasciato Bob Marley?

La sua voce, i suoi testi intrisi di tragico racconto delle disuguaglianze e di tensione verso il riscatto e la ribellione. Ci ha lasciato quel magico ritmo in levare del reggae che ha dato leggerezza e vitalità a canzoni dai contenuti spesso drammatici. Marley è un artista che ha saputo miscelare e armonizzare la parte strumentale con il racconto del ghetto, delle tante periferie del mondo. Ha giocato sul contrasto, non sulle emozioni di facile presa. Le sue canzoni – semplici e dirette – sono sopravvissute al tempo, al contrario dei tanti potenti che dettavano legge nel 1980, il cui ricordo è oggi quasi estinto.

In che modo ha contribuito alla storia musicale e sociale a tuo avviso?

Come dicevo, ha portato il reggae a una conoscenza diffusa, universale, e in questo ha esercitato molteplici influenze sugli artisti contemporanei e sulle successive generazioni. Anche in Italia sono arrivate – immancabili – canzoni di successo dal ritmo in levare. Marley ha anche dimostrato che musica e parole possono andare a braccetto, e che l’impegno sociale non significa necessariamente privilegiare il testo sull’arrangiamento e la parte compositiva. Ma credo che il contributo più importante di Marley sia riassumibile in poche parole: canzoni di libertà.

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