Obtorto collo è una locuzione latina comunemente utilizzata nel linguaggio corrente con il significato di “sotto costrizione, malvolentieri”. Difficilmente verrebbe voglia di intitolare così un album, e per di più un’opera prima. Sto parlando dell’ultimo lavoro di Pierpaolo Capovilla, tormentato frontman de Il Teatro degli Orrori e degli One Dimensional Man, pubblicato il 27 maggio scorso e annoverato tra i finalisti della Targa Tenco 2014 per l’opera prima.
Un disco difficile, erto all’ascolto. Ne risulta altrettanto arduo fornirne un giudizio, o perlomeno un’opinione, per quanto valida e condivisibile possa essere, senza peccare di banale e frettolosa superficialità.
Sicuro è che Pierpa’ c’è, in ogni singola nota. Ogni parola trasuda la presenza di una personalità decisamente ingombrante, suggestivamente autoreferenziale, perennemente in bilico tra slancio comunicativo e la tendenza alla reiterata celebrazione di sé stesso. Eppure, come precisato da Capovilla stesso, questo è un album che “pur essendo fortemente autobiografico, non parla di me, o meglio parla di me nella relazione con te, fino ad arrivare a parlare della società…”. Questo gli permette forse di riappropriarsi di un ruolo che sente prepotentemente attuale, un dovere etico, di denuncia da parte di coloro che si definiscono intellettuali o artisti, ruolo che non è meramente quello di raccontare il “bello e il buono” ma è la viscerale necessità di “scolpire la realtà”, di provocare, ovvero chiamare fuori, scuotere, finanche irritare. Chi può permettersi questo rischio se non chi non ha nulla da perdere, o così dovrebbe essere, ovvero colui che ha la possibilità di estraniarsi dalla realtà e di farsi strumento di questa necessità morale, spremendo dubbi, sollecitando domande. E qui ritorna il senso del titolo dell’album, Obtorto Collo, visto come punto di partenza verso l’emancipazione da qualcosa che non possiamo più sopportare.
Parola come strumento, come responsabilità verso noi stessi e gli altri. La canzone, nella sua estrema capacità di sintesi, né è quindi un fruibile e, perché no, godibile guscio.
L’inquietudine cresce, in Come ti vorrei, nel sax di Guglielmo Pagnozzi, per poi placarsi, seppur temporaneamente nelle atmosfere dei due brani successivi, Irene e Bucharest. Urbana e sostenuta la prima, lieve e quasi sognante la seconda. Con gli ultimi brani si torna alla denuncia, della violenza domestica in Quando, in un racconto quasi d’altri tempi, in cui si respira un eco blues, fino all’omaggio a Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare morto durante un TSO. Capovilla torna buio, cupo. In Obtorto collo si assiste all’alienazione e la Luce delle stelle lascia perplessi. Ultima traccia, Arrivederci, è dedicata alla chiarezza partigiana del poeta veneto Andrea Zanzotto.
Che dire quindi? Che non fosse un prodotto confezionato e pronto all’affrettata fruizione c’era da aspettarselo, è un groviglio di pensieri, a volte confusi, a tratti poetici. Sperimentazioni musicali e narrative, più o meno riuscite, che si tingono di cupa presenza scenica e di altrettanta limpida schiettezza.
È un disco difficile, da riascoltare, che lascia domande più risposte, perplessità. In ogni caso, tutto fuorché indifferenti.
Pierpaolo Capovilla in concerto alla Latteria Artigianale Molloy, un animale da palcoscenico dagli occhi di ghiaccio.
Brescia, 22 novembre 2014
Formazione: Stefano Giust alla batteria, Francesco Lobina ai bassi, Alberto Turra alla chitarra, Kole Laca alle tastiere, Guglielmo Pagnozzi al sax alto.