Paolo Cattaneo, la sua band e ospiti d’eccezione: “La luce nelle nuvole” incanta il Teatro Grande di Brescia.
Piccole meraviglie venerdì sera all’ultimo piano del Teatro Grande. Una sala poco conosciuta ai più, con affaccio sul duomo cittadino, il Salone delle Scenografie. Un tappeto legnoso e travi a vista. È qui che poco più di duecento persone hanno avuto il piacere di ascoltare l’esibizione del bresciano Paolo Cattaneo, la sua band, e tre ospiti d’eccezione. Da Londra, Copenaghen e Madrid hanno fatto ritorno in terra bresciana il trombettista Fulvio Sigurtà, il batterista Emanuele Maniscalco e il chitarrista Walter Beltrami. Un‘orchestra di strumenti ed emozioni, sorprese e arrangiamenti d’eccezione. Un’occasione speciale, nella quale Paolo ha presentato brani del suo ultimo album “La luce nelle nuvole” (2013), ma non solo.
Un funambolo, un uomo sul filo è Paolo Cattaneo. Un passo dopo l’altro, lieve. La sua figura sottile e asciutta snoda grovigli di sentimenti ed emozioni appena accennate, immagini appena svelate. Le sue dita affusolate ricamano tessuti immaginari, in aria.
Il primo pezzo è un piccolo capolavoro di musica e parole. Cinque minuti di pura magia, che scioglie l’intreccio nodoso di carne e ossa. “Tarda pure” schiude timidamente le ali, dando tempo ai musicisti di accordare sguardi e intesa ed esplode, in un rumoroso silenzio. Non ci importa, tarderemo, tarderemo ancora, indugiando, perdendoci. Sono sfumature, dettagli, un cappotto blu che ci incantano, mescolando brezze elettroniche a delicati suoni acustici.
Con “L’innocenza”, ironicamente malinconica, si respira il raffinato elettropop che caratterizza “La luce nelle nuvole”, abbandonando le atmosfere crepuscolari, a tratti cupe e cerebrali, del precedente “Adorami e Perdonami” (2009). Un graduale passaggio, del quale si era avuto un primo assaggio con il “Il Gioco”, EP pubblicato nel 2011. Quattro brani dalle atmosfere leggere e solari, pur mantenendo la sostanza intima e riflessiva della prima produzione. È proprio dall’ultimo EP che ascoltiamo la seducente “Occhi”, con Maniscalco alla batteria. Sguardi che si incontrano per un momento, fuggevoli “presenze che non hanno battiti…”. In “Come per miracolo” è la tromba di Sigurtà a “farci volare…”, lirica nella quale si apprezzano incastri e perfette sovrapposizioni sonore. “Non ho rabbia non ho pietà” vede Maniscalco al piano, e raccoglie tutta l’intensità interpretativa di Paolo. Le secondi voci incastonano il perfetto crescendo emotivo. Una confessione, forse autobiografica, cruda e viscerale nel testo, dolce e sognante nella melodia. Attendiamo l’apice finale, percorrendolo con lui, apice che però non arriva, lasciandoci con un finale scarno, essenziale, apparentemente incompiuto. “E diventerò simbolo/ non di amore né di libertà/ ma di ciò che ognuno è” sono gli ultimi versi rivelatori. Ecco quando la musica si piega al significato ultimo delle parole.
Sul palco li raggiunge anche Walter Beltrami, per accompagnarli nella brezza leggera di “Trieste”, “ti porto a visitare Trieste, a fare scorta di vento, fare provvista di vento…”. Paolo ringrazia l’autore del brano e amico Lele Battista, per poi toccare le corde più intime con la struggente “Sei qui per me”. Quel reiterato “Perché te ne vai?” si insinua nella testa, risuona nel cuore.
Ritorniamo verso atmosfere più sostenute, metropolitane in “Roma Milano”, e squisitamente orecchiabili in “Col mio ritmo”. È il mandolino imbracciato da Nicola Panteghini ad annunciare il successivo brano. Raffinati Giochi tra sintetizzatori e percussioni, dal ritmo incalzante e accattivante. “L’uomo sul filo” è una dedica a Philippe Petit, piccolo danzatore del cielo.
“Torno qui” tocca l’apice emotivo, con Paolo al pianoforte. Con lui sul palco solo i tre ospiti della serata. L’ultimo brano, che li vede protagonisti di nuovo tutti, è “Mi aspetto di tutto”, magnetica e ammaliante, soprattutto nella versione originale in cui spicca la fisarmonica del bresciano Fausto Beccalossi.
Poco più di ora di concerto, ci ha lasciato con il sapore e la voglia di altre canzoni. Avrebbe potuto osare di più, lasciando sfociare la meraviglia dell’orchestra. Si aspetta trepidanti che qualcosa esploda fuori, ma forse è successo dentro. Quello che emerge è la sua indubbia raffinatezza poetica, tipica di quel cantautorato intimista che richiama la scena musicale romana più che bresciana. Non a caso tra le sue collaborazioni figurano Riccardo e Daniele Sinigallia, Stefano Diana, autore di testi di Niccolò Fabi, senza tralasciare personalità legate alla nostra città tra i quali il paroliere Giovanni Peli e gli innumerevoli musicisti che hanno prestato la propria arte. Il frutto è quindi una preziosa prova di maturità di musica e testi, accompagnata da sensibilità e una meticolosa cura dei dettagli, dei particolari.
Quel che resta è un velo di delicata poesia, tra “sogni rapiti dalla realtà.”
Photo: Silvia Dallera