Accade nel 2005, nell’insolita cornice scenica di quella rumorosa macchina mondana chiamata Fashion Rocks.
David Bowie torna su un palcoscenico dopo un’assenza lunga e preoccupante, dovuta ad un infarto che l’ha costretto ad interrompere bruscamente il Reality Tour. Calano le luci e in sala si liberano magicamente le note di pianoforte tratteggiate come in punta di finissimo pennello dal fidato Mike Garson. E poi, eccolo: come un colpo di scena fa il suo ingresso in scena un signore un po’ compassato ma bellissimo, come sempre. E’ lui. Attacca con un filo di voce provata It’s a God-awful small affair/To the girl with the mousy hair e il pubblico esplode in visibilio.
Eppure c’è qualcosa di strano, su quel palco; i suoi pantaloni sono grottescamente corti, un occhio è chiaramente tumefatto, la mano sinistra è bendata da una fasciatura medica. Qualcuno teme subito il peggio; ci si appella alla malattia, al dolore, ad una morte imminente. E invece Bowie sta solo scherzando con noi e con il destino, perchè mai come in quell’ultimo periodo si è sentito vicino alla morte, da sempre la sua ossessione creatrice. Morto fra i vivi dunque, ma ancora in piedi, ci offre quella che rimarrà forse la performance vocale più imperfetta e insieme quella più emozionante della sua intera carriera.
Quella che diventerà, fatalmente, fra le sue ultime apparizioni su un palcoscenico.
Il giorno sarebbe dovuto arrivare, prima o poi: i seguaci di Bowie lo immaginavano e lo temevano come un’ipotesi quasi innominabile. Specialmente dopo la morte di Lou Reed, si facevano in gran segreto le prove generali del giorno X, cercando di allontanarlo dalla mente come un’eventualità poco realistica.
Eppure il tema della morte nell’opera dell’artista inglese è sempre stato protagonista assoluto: mai invalidante a dire il vero, ma piuttosto una forza generatrice legata indissolubilmente al concetto dello scorrere del tempo e della ciclicità. Dall’inno generazionale di Rock’n’roll Suicide, alla contemplazione del teschio amletico nelle esibizioni live di Cracked Actor, al tributo a Brel/Walker di My Death, alla orwelliana We are the Dead, al viaggio cabalistico di Station to Station, fino agli oscuri presagi in cupo interno berlinese di Warszawa e Sons of the Silent Age, passando poi per l’intero concept di Outside, la struggente nostalgia di Slip Away, fino alla bellissima Bring me the Disco King che già nel 2003 suonava come un testamento artistico e un approssimarsi alla fine:
You promised me the ending would be clear
You’d let me know when the time was now
Don’t let me know when you’re opening the door
Stab me in the dark, let me disappear
La tensione verso la scomparsa, verso “l’apertura della porta”, Bowie a dire il vero l’ha sempre guardata in faccia con aria di sfida.
E ora che ovunque si sta scrivendo delle sue ceneri dopo la cerimonia privata di New York senza pubblico alcuno, questa tensione riemerge riascoltando l’ultimo, bellissimo album Blackstar, uscito sul mercato l’8 gennaio. Un testamento, si dirà. Ma soprattutto l’estremo gesto di un artista che attraverso gli anni ha sempre saputo e voluto stupire, ed è riuscito a farlo persino in punto di morte, trasformando essa stessa in arte.
Ce lo sussurrava già nel 1995 con quel suo modo materno Fernanda Pivano nel booklet italiano di Outside: “Siamo di fronte ad un omicidio artistico, la morte come arte estrema, il dramma dell’orrore”, svelandoci il nesso mortale che trascina con sé nella caduta l’arte e la vita come avviluppate sino alla fine dei giorni in un abbraccio che oggi più che mai, riascoltando Blackstar e pensando alla scomparsa del suo autore, ci scuote e ci lacera davanti al giradischi.
La morte è l’arte estrema, e i negozi di dischi vanno affollati di un simbolo di lutto: una stella nera.
Così dopo la notizia della sua morte, giunta in un piovoso lunedì mattina (“Where the fuck did Monday go?”) che non si potrà più scordare, riascoltare Blackstar appare sempre più come la ricomposizione di segni disparati, combaciando ora nel dramma ora nella commozione,verso la materializzazione del colpo di scena rock più incredibile di sempre.
Ad anticiparne l’uscita erano stati lo scorso 20 novembre l’omonimo singolo e il relativo videoclip, che vede alla regia il Johan Renck di True Detective; in poche ore dalla pubblicazione, esplode la fantasia interpretativa dei fan di tutto il mondo: esoterismo, fantascienza, addirittura l’ombra dell’Isis. Ora lo si potrà dire senza remore: Bowie ha dato voce ad un racconto misterioso e simbolico che pone al centro i suoi ultimi mesi di vita, caratterizzati dalla lotta contro un tumore maligno.
Il cadavere di Major Tom, il teschio divinizzato, la villa di Ormen, il tema della resurrezione e della possibile rinascita, i riferimenti testuali fin troppo espliciti (“Something happened on the day he died”, “How many times does an angel fall?”): tutto rientra nella fine tessitura simbolica di un Kaddish musicale e artistico senza precedenti.
E quel titolo, Blackstar, che assume improvvisamente un connotato profetico.
Ma Bowie ci ha abituati da tempo a giocare con un sorriso beffardo sul filo della fatalità: nonostante il suono jazz piuttosto oscuro che abbraccia l’intero album, svettano composizioni che giocano con i generi e le strutture, passando da ritmi ipnotici a giri frenetici sull’ottovolante alimentata dalla sua nuova band. Il Duca riesce così a scombinare il linguaggio in Girl Loves Me giocando con i neologismi dei Drughi creati dalla penna di Anthony Burgess per A Clockwork Orange e con il polari, lo slang delle strade di Londra; in ’Tis Pity She Was A Whore tocca il tema dell’incesto e della guerra rievocando una scandalosa piece teatrale di John Ford; in Sue (Or in a Season of Crime) mette in scena uno psicodramma fulminante e psicotico, appoggiandosi al violento sassofono di Donny McCaslin e ad una linea percussiva che non lascia un secondo di respiro; in Dollar Days riprende vecchie atmosfere in aria di Settanta caricandole di pathos teatrale e fatalista, portandoci allo stremo emotivo facendoci immaginare il peggio (“Don’t believe for just one second I’m forgetting you/I’m trying to/I’m dying to”).
Ma il tempo stringe (“Time may change me/But I can’t trace time”, post-scriptum) e Bowie lo sa (a differenza dei musicisti che suonano nel disco). E così arriva Lazarous, terza traccia del disco e lascito testamentario nel quale il Duca sembra parlarci direttamente del suo dolore: “Look up here, I’m in heaven/I’ve got scars that can’t be seen”. La canzone serpeggia lenta, con una linea di basso che rimane appiccicata addosso come pece nera. “Look up here man I’m in danger/I’ve got nothing left to lose/I’m so high, it makes my brain whirl”: la confessione assume toni sempre più sofferti e sempre più sinceri, nell’urgenza di un messaggio finale. Si può solo tentare di trattenere i balzi violenti del cuore ma è già troppo tardi quando Bowie esplode quel “Oh, I’ll be free/Just like that bluebird/Ain’t that just like me?” che appare ora come il punto più alto e più disperato dell’intero disco, il canto del cigno che nel guizzo finale dei nervi sembra voler abbracciare qualcosa di invisibile, ciò che è oltre la porta.
I giornalisti social ci tengono a farci sapere in queste ore che il videoclip di Lazarous ha raggiunto 51 milioni di visualizzazioni in 24 ore, battendo Adele e tutto lo zoo musicale odierno: in quello che è destinato a restare il suo ultimo video Bowie è steso in un letto d’ospedale, sul viso una benda e due bottoni che sostituiscono la vista, la figura della Morte si aggira nella stanza mentre l’artista cerca urgentemente di comporre gli ultimi versi prima di rientrare in un armadio che si chiuderà per sempre. Riguardarlo oggi, dolorosamente, significa soprattutto vedere un uomo che sta condividendo la sua fine con il mondo.
E quel grido, “I’ll be free”, gettato ad occhi chiusi verso il cielo in segno di sfida, è la vera eredità che Bowie ci vuole lasciare.
E’ il 1979 quando esce il video del singolo Look Back in Anger, diretto da David Mallet.
Bowie è all’apice della sua verve artistica e ad uno svincolo creativo; è appena uscito Lodger, il capitolo finale della Trilogia Berlinese, che si lascia Berlino alle spalle e dà inizio ad una nuova fase che culminerà un anno dopo con la pubblicazione dello splendido Scary Monsters.
Nel videoclip vediamo un Bowie nei panni di un distorto Dorian Gray post-moderno che, nella contemplazione di un suo ritratto giovanile, invecchia precocemente fino a sfigurarsi.
In un crescendo di delirio, Bowie/Gray crea confusamente la sua arte sul proprio volto deformato riflesso nello specchio; genera l’opera letteralmente sul suo stesso decadimento, sull’incedere del tempo e sulla sua inevitabile fine.
“Don’t deride those who are mourning David Bowie” scrive ieri Suzanne Moore sul Guardian. La cognizione del dolore dei bowiani è cosa seria: non se n’è andata una semplice rockstar, ma un Maestro che ha preso per mano e guidato nel buio intere generazioni. Un faro, apparso dal nulla in una giornata nebbiosa a Londra.
Un faro che torna a brillare, un’ultima volta, in I Can’t Give Everything Away, la traccia che chiude troppo presto il nuovo disco. L’armonica che trascina il pezzo rimanda chiaramente a quella di A New Carreer in a New Town, pezzo che apriva la sezione strumentale di Low nel 1977: ora come allora, la colonna sonora di un nuovo passaggio, un nuovo spostamento, un nuovo viaggio. Verso dove? Chi può dirlo.
Seeing more and feeling less
Saying no but meaning yes
This is all I ever meant
That’s the message that I sent
I can’t give everything away
Il segreto ultimo è stato svelato. La canzone di chiusura dell’artista e l’ultima parola dell’uomo arrivano a coincidere, su un tappeto elettronico che non cede mai al buio dell’oblio ma anzi riscatta tutto l’album, lasciando uno spiraglio di luce finale. Come il bluebird bukowskiano che viene cantato in Lazarous, il suo autore potrà ora uscire dalla gabbia. Sarà libero di volare via.
Mentre la stampa ci informa che non avremo neppure la soddisfazione di una cerimonia funebre pubblica e ora che le ultime particelle delle ceneri di Bowie si adagiano piano dopo i giorni del clamore mediatico, possiamo solo ascoltare e riascoltare il suo ultimo, bellissimo lavoro.
Toccare fisicamente il disco equivale a toccare un’urna, una reliquia sacra; colpisce, ora che tutto è accaduto, la simbologia presente nel booklet: la stella nera, la scritta Bowie tradotta in geroglifici di stella dal graphic designer Jonathan Barnbook, i testi resi in forma di costellazione.
Ma soprattutto, l’intera facciata dedicata ad un’immagine fotografica dell’enorme spazio stellato, accanto ad un bellissimo scatto di Bowie che sembra contemplare eroicamente un infinito non visibile.
Risiede in questo abbraccio non casuale il senso ultimo di Blackstar e il finale gesto artistico e umano di David Bowie, uomo bendato che non si arrende a gettare lo sguardo oltre l’ultima porta.